Perdita della capacità di guadagno a seguito di lesioni personali: valutare l’incompatibilità tra postumi e mansioni

Da escludersi che gli accertamenti possano compiersi in abstracto, chiedendo al medico-legale di quantificare in punti percentuali la cosiddetta incapacità lavorativa specifica, e moltiplicando il reddito perduto per la suddetta percentuale

Perdita della capacità di guadagno a seguito di lesioni personali: valutare l’incompatibilità tra postumi e mansioni

L’accertamento del danno patrimoniale da perdita della capacità di guadagno, conseguente a lesioni personali, patito da un soggetto già percettore di reddito, deve avvenire: accertando l’entità dei postumi permanenti; accertando la compatibilità tra i postumi e l’impegno fisico o psichico richiesto dalle mansioni svolte dalla vittima; valutando se l’eventuale incompatibilità tra postumi e mansioni comporti, in atto od in potenza, una presumibile riduzione patrimoniale. Deve invece escludersi che gli accertamenti suddetti possano compiersi in abstracto, chiedendo al medico-legale di quantificare in punti percentuali la cosiddetta incapacità lavorativa specifica, e moltiplicando il reddito perduto per la suddetta percentuale. Sebbene il danno da lucro cessante causato dall’incapacità di lavoro possa dimostrarsi anche col ricorso alle presunzioni semplici, deve escludersi ogni automatismo tra il grado percentuale di invalidità permanente e l’esistenza del suddetto danno.
Questi i paletti fissati dai giudici (ordinanza numero 22584 del 5 agosto 2025 della Cassazione) alla luce del contenzioso originato oltre venti anni fa su un autobus, quando, a causa di una brusca frenata del mezzo, un passeggero fu spinto in avanti, cadde a terra e riportò una frattura dello scafoide.
A prescindere alla specifica vicenda, i magistrati di terzo grado ribadiscono che il danno da perdita della capacità di lavoro va così liquidato: se la vittima ha conservato il lavoro, sottraendo dal reddito goduto dalla vittima prima dell’infortunio il reddito goduto dopo; se la vittima aveva un lavoro e l’ha perduto a causa dell’infortunio, ma ha conservato la capacità di svolgerne uno, il danno va liquidato sottraendo dal reddito goduto dalla vittima prima dell’infortunio, il reddito (figurativo) che presumibilmente potrà ancora conseguire in virtù delle residue forze industrie e delle sue capacità manuali o intellettuali; se la vittima non aveva un lavoro, il danno va liquidato sottraendo dal reddito figurativo che la vittima avrebbe verosimilmente potuto percepire se fosse rimasta sana, il reddito (figurativo) che presumibilmente potrà ancora conseguire in virtù delle residue forze industrie e delle sue capacità manuali o intellettuali.
L’applicazione di tali criteri impone di accertare in facto, secondo quanto dedotto e provato dal danneggiato: quale lavoro la vittima svolga; quali siano le sue competenze professionali; quale il suo reddito; quale la riduzione in atto o presumibile di quest’ultimo.
Tornando alla vicenda in esame, in Appello si è fatto riferimento a quanto riconosciuto dall’INAIL alla vittima dell’incidente, ossia una rendita per invalidità permanente, invalidità accertata nella misura del 12 per cento. Ma la pretesa di liquidare il danno da lucro cessante moltiplicando il reddito della vittima per una percentuale di incapacità lavorativa specifica, immancabilmente rimessa al giudizio (se non addirittura all’arbitrio) del medico legale, è operazione giuridicamente, concettualmente e medicolegalmente erronea, sanciscono i magistrati di Cassazione.
Tale criterio liquidativo in primo luogo è erroneo perché al consulente tecnico medico-legale può chiedersi di indicare i postumi permanenti, precisando se essi impediscano in tutto od in parte la prestazione lavorativa, se la rendano più difficoltosa e sotto quale aspetto (forza, resistenza, concentrazione, perizia manuale). Non è invece consentito demandare al medico legale un giudizio di tipo giuridico sull’esistenza del danno patrimoniale da lucro cessante, in quanto si tratterebbe d’una valutazione riservata al giudice e che travalica lo specifico settore di competenza del medico legale. E però, nella sostanza, il criterio di liquidazione del danno patrimoniale consistente nel moltiplicare il reddito ante sinistro per la percentuale di incapacità lavorativa specifica, e capitalizzare il risultato (cosiddetto criterio di liquidazione in abstracto) ha per effetto proprio lo spostamento del centro decisionale dal giudice al medico legale. Il danno patrimoniale, infatti, attraverso l’adozione di questo criterio, finisce per essere liquidato senza alcun accertamento in concreto sulle variazioni del reddito della vittima prima e dopo il sinistro, ma semplicemente capitalizzando (non il reddito perduto, ma) una percentuale di reddito corrispondente alla percentuale di incapacità lavorativa specifica, percentuale che altro non è se non una cabala, a causa della sua ascientificità e del cieco empirismo con cui, di conseguenza, viene determinata.
Il criterio di liquidazione basato sulla percentuale di incapacità lavorativa specifica, in secondo luogo, è erroneo perché la riduzione della capacità di svolgere un lavoro non può misurarsi in punti percentuali, sicché il relativo calcolo manca del più importante presupposto: la scientificità. In punti percentuali si può misurare l’invalidità biologica, non l’incapacità di lavoro. Solo la prima infatti è identica per soggetti della stessa età, dello stesso sesso e con identici postumi. La capacità di lavoro invece è soggettiva e varia a seconda del tipo di lavoro svolto dalla vittima, come da tempo messo in evidenza dalla stessa dottrina medico legale, secondo la quale la capacità specifica è parametro a tal punto personalizzato ed individuale da rifuggire inquadramenti numerici, necessariamente limitativi ed imprecisi nella delineazione di un concetto cui può ritenersi estraneo ogni schematismo.
In terzo luogo qualsiasi misurazione (percentuale o di altro tipo) esige che si disponga d’una unità di misura: ma non esiste alcun barème medico legale dal quale ricavare la percentuale di riduzione di capacità di lavoro.
Il danno biologico si può misurare in punti percentuali perché esso esprime la riduzione della capacità di svolgere le attività quotidiane ed ordinarie (camminare, leggere, curare la propria persona, ecc.), e le attività quotidiane sono uguali per tutti. Questo rende possibile, sulla base dell’osservazione dei casi analoghi, redigere una tabella delle percentuali di menomazione collegate ad ogni singola invalidità. L’incapacità lavorativa invece non può misurarsi in punti percentuali perché non disponiamo di un barème, né un barème delle incapacità lavorative potrebbe concepirsi, per l’infinità varietà delle attività lavorative in cui può impegnarsi un essere umano, e le altrettanto infinite modalità con cui il medesimo lavoro può essere svolto da persone diverse.
In quarto luogo, infine, pretendere che il danno da lucro cessante debba ritenersi dimostrato sol perché sia stata apprezzata dal medico legale una certa misura percentuale di incapacità lavorativa specifica è affermazione giuridicamente erronea, in quanto l’accertamento dell’esistenza di postumi permanenti incidenti sulla capacità lavorativa specifica esprime solo la possibilità del danno, non la sua certezza e tanto meno la sua probabilità, e non comporta perciò l’automatico obbligo di risarcimento del danno patrimoniale da parte del danneggiante.
L’infinità varietà delle persone, dei lavori da esse svolti e dei postumi permanenti che possono residuare ad un infortunio fanno della decisione sull’esistenza del danno da lucro cessante un giudizio sintetico a posteriori, non un giudizio analitico a priori.
È dall’accertata diminuzione del reddito che deve risalirsi alla prova del danno ed alla sua causa. Non è invece corretto, una volta ritenuta in astratto l’incapacità lavorativa della vittima, desumerne la prova d’una contrazione patrimoniale, senza nessun accertamento in concreto d’una deminutio patrimonii.
Tirando le somme, l’incidenza dei postumi sulla capacità di lavoro andrà dunque valutata in base a tre passaggi: l’accertamento dei postumi; l’accertamento della compatibilità tra i postumi e il concreto tipo di impegno, fisico o intellettuale, richiesta dal lavoro svolto dalla vittima; l’esistenza in atto od in potenza d’una riduzione patrimoniale. E questo giudizio ha per corollario, precisano i magistrati di Cassazione, che il danneggiato alleghi e provi il tipo di lavoro svolto, il tipo di mansioni corrispondenti, il tipo di impegno fisico o psichico da esse richiesto. Dimostrato ciò, per la stima del danno in esame si potrà ricorrere ovviamente anche alla prova presuntiva, che tuttavia dovrà basarsi su fatti noti dai quali risalire ai fatti ignorati, e non sul mero automatismo tra entità dei postumi e sussistenza del danno.

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